Mank di David Fincher.
Aspettiamoci premi con” Mank” firmato da David Fincher basato sullo script di Jack Fincher padre del regista . E’ un capolavoro assoluto che incentra la sua attenzione sulle vicenda della paternità della stesura (peraltro romanzata) del film di Orson Welles “Quarto potere”, attraverso la figura di Herman J. Mankiewicz. Già nel 1971 la saggista di Pauline Kael, teorizzò che la sceneggiatura di questo film rivoluzionario era da attribuire interamente a Mankiewicz, mettendo in ombra la firma del regista presente nei credits. Ma David Fincher guarda oltre a questa diatriba. Apre contemporaneamente un ventaglio di riflessioni sulle dinamiche dell’industria cinematografica di ieri, riaffermando la forza rivoluzionatrice di “Quarto potere”, che sancì un nuovo modo di essere autori. Il trait d’union tra Fincher e Welles, è la trama filmica di Mank, con al centro uno sceneggiatore autodistruttivo (che con occhio critico guarda l’aristocrazia di Hollywood) ed il protagonista di “Quarto potere”, il potente e gelido magnate dell’editoria Charles Foster. Quest’ultimo è ispirato alla figura di William Randolph Hearst e forse anche ad Howard Hughes, che sprigiona il fascino dell’uomo dominante, dai risvolti ambigui, che ha toccato vette altissime ma destinato a cadere nella gabbia del rimpianto e della solitudine. Mank conosceva personalmente Hearst che boicottò “Quarto potere” di Welles.
Per scoprire il vero volto del personaggio di Charles Foster, fu scelta come narrazione l’indagine giornalistica capace di correre tra i punti di vista di cinque persone diverse, che si stringono in un inquietante puzzle con un finale a sorpresa. E’ un’opera stratificata con i suoi tantissimi livelli di lettura che ampliano il racconto, partendo dalla vicenda umana dello strappo materno subito nell’età infantile dal protagonista, passando per il catalizzante potere della stampa, fino al maniacale controllo che può averne il suo editore. Ma questa figura si relaziona alla realtà, che prospera sotto il segno della dominante scritta luminosa Hollywood, in cui Mank e Orson Welles ne furono parte con alterne fortune. Sono i flashback del nostro sceneggiatore interpretato da uno splendido Gary Oldman a ridisegnare quell’epoca avvolta in uno spirito frenetico, riecheggiante le conseguenze della crisi del ‘29: l’impianto narrativo è reso visivamente ancor più sognante da uno splendido bianco e nero che, tra giochi di luce e di macchina, è un mero atto d’amore verso il grande cinema americano degli anni ‘40. Mentre Mank uno splendido Gary Oldman è isolato in un ranch, nonostante sia tiranneggiato dal vizio dell’alcol, è consapevole del suo talento smisurato capace di dar vita ad opere che hanno lasciato il segno.“ E”la cosa migliore che abbia scritto” dice Mank in un terribile scontro finale a Welles ( Tom Burke) rivendicando la propria firma.Nei suoi flashback erompono troppe ombre del suo passato, che fanno luce sulle imperanti dinamiche di potere verso le quali mostra tutta la sua insofferenza, espressa con un intelligente ironia. Quella stessa insofferenza verso la dimensione cinematografica, biecamente complice di campagne politiche capaci di confezionare sconfitte, strette dai nastri di giochi pericolosi delle fake news. Gli occhi dei cinefili rimangono incantati da quell’immaginario scintillante del divismo, con le dive dalla bellezza mozzafiato, mentre dentro le room writer delle major (che non ammettono fiaschi al botteghino) c’erano quei geni, per lo più grandi immigrati di seconda generazione, che stimolandosi costruivano sogni. Mank insieme a suo fratello, Ben Hecht, , S. J. Perelman, George S. Kaufman parlavano nervosamente: e tra una sigaretta, una battuta sarcastica ed un bicchiere di whisky, creavano capolavori lasciando un segno nell’Olimpo del grande cinema. Il regista tratteggia gli uomini più influenti di Hollywood: appare il gelido Louis B. Meyer, il brillante di Irving G. Thalberg che ispirò il romanzo incompiuto “The last Tycoon” di Fitzgerald, come del magnate dell’editoria William Randoph Hearst (Charles Dance), follemente innamorato di Marion Davies ( Amanda Seyfried): una star dalla bellezza disarmante e musa per Mank. Il grande scatto artistico di Mank e di Welles, fu nel cogliere che le regole del successo potevano essere cambiate con nuove forme scompaginatrici di espressione cinematografica. “Quarto Potere” uscì nel ’40. Charles Foster è un personaggio attuale, consumato da una crisi interiore: è lui stesso simbolo della fine del sogno Americano?
Paola Olivieri