10 09 2020“Judy” (2019) diretto Rupert Gold, fotografa il periodo londinese di Judy Garland, pulsante di una certa autenticità grazie alle testimonianze oculari dell’assistente di produzione Rosalyn Wilder, che si occupò della cantante poco prima delle esibizioni al The Talk of the Town. Ricreare i luoghi e l‘aspetto della star è stato un lavoro complesso con risultati magnifici, perché parallelamente sono stati ripercorsi l’inizio e la fine della sfolgorante carriera della Garland. “Abbiamo l’Hollywood del 1930, con i suoi colori del periodo (Technicolor, Kodachrome); e poi gli anni ’60 e il cinema più moderno”, dice la scenografa Kave Quinn.
Di grande impatto sono le immagini della piccola ed infelice Judy tirannicamente messa a scacco dai ritmi dello star system, mentre il mondo conosceva solo quella baby star dagli occhi magnetici e talento incommensurabile, protagonista del successo cinematografico “Il Mago di Oz” di Fleming.
Il prezzo del successo fu per lei altissimo: il controllo degli studios sulla sua immagine la obbligò a seguire drastiche diete facendo uso di pillole per non prendere peso, per dormire e stare sveglia. Questi ineluttabili meccanismi del divismo scaraventarono Judy nell’inferno segnando per sempre il precario equilibrio della precoce star.
Il film si rivela essere un inconsueto biopic, corre parallelamente su diversi piani di lettura cercando di cogliere l’essenza della star dallo spirito indomito, mentre i salti temporali tendono, come evidenzia il regista, a “bilanciare la leggenda con la donna umana e reale: la madre e il mito”. Ciò che sembrava molto umano era l’esplorazione, nella sceneggiatura, del bisogno di Judy di trovare l’amore e di trovare una casa – dopo tutto “non c’è un posto come casa” – per trovare la normalità”.
La permanenza della star nella City diventa per la donna una prigione dorata, un salvataggio che la annega nello smarrimento, in quanto afflitta dalla nostalgia verso i suoi due figli: entrambi rimasti in custodia con l’ex marito a Los Angeles. Lo straziante presente della Garland è una cinica e frenetica altalena, scorre tra serate sold out con scroscianti applausi e notti vissute nella più completa solitudine: piagata da una insonnia permanete è vittima di una spirale autodistruttiva che la obbligano all’uso smodato di antidepressivi. Improvvisamente un arcobaleno di amore si apre nella vita di Judy con il giovane Mickey Dean, che diventerà per un breve periodo il suo quinto marito. “Ogni volta che taglio una torta scopro che ho sposato un cretino”, dirà amareggiata poco dopo.
Renée Kathleen Zellweger è una splendida Garland, regala una commovente e umanissima interpretazione, nella quale tra luci e ombre ne coglie l’autenticità e l’inaffidabilità come quel talento musicale catalizzante che andava dritto al cuore, capace di tenere in pugno platee oceaniche. Il palcoscenico era il mondo di Judy, contraccambiava il calore del pubblico con perfomance colme di pathos, mentre il suono degli applausi gli regalava l’illusione della felicità. Da inesperta diva bambina, decise di non oltrepassare i cancelli degli studios, regalando sogni al suo pubblico senza comprendere e accettare in seguito il diabolico rovescio della medaglia dell’industria hollywoodiana. Sarà nel grandioso finale che Judy, sempre più stanca e sconfitta, canta ‘Somewhere Over the Rainbow’, la sua voce non riesce a continuare: il pubblico, percependone la vulnerabilità ed il declino, finisce con lei il brano musicale.
Paola Olivieri